sabato 23 gennaio 2016

The Cure - Disintegration, 1989

In un episodio di South Park Kyle definisce Disintegration "il miglior album di tutti i tempi". Sparata eccessiva o meno, è indubbio che si tratta del capolavoro indiscusso dell'arte e dell'ispirazione malinconica, lirica e struggente di Robert Smith, nonché uno dei quattro o cinque dischi fondamentali del decennio '80. Secondo atto di una trilogia dark e a tratti nichilista iniziata con Pornography (1982), l'opera gioca con le immagini dalla copertina, in cui l'artista
sembra emergere come un cadavere tra acque torbide e baudelairiani "fiori del male", funereo come una Ofelia preraffaellita al maschile. Quei fiori - un'immagine che tornerà non a caso nel 2000 in Bloodflowers, atto finale della trilogia - sono il suo oscuro e affascinante mondo interiore donato ai fan e al pubblico generalista, che amò e ama tuttora quel disco a distanza di tempo perché ne percepisce, forse, l'autenticità d'ispirazione.
Robert Smith è uno strano personaggio, un uomo capace di tenersi il suo comunissimo, anonimo nome senza ricorrere a un nome d'arte, riversando interamente nel proprio aspetto (capelli a cespuglio, eyeliner agli occhi, rossetto, camicioni e scarpe da ginnastica) il suo essere controcorrente, un goth sui generis ai limiti del freak, al punto da ispirare a Tim Burton il personaggio di Edward mani di forbice. Placebo, Smashing Pumpkins, Interpol, Deftones e persino gli insospettabili Red Hot Chili Peppers hanno ammesso di avere i Cure tra le loro principali fonti d'ispirazione.
Disintegration arriva al decimo anno di una carriera già fortunatissima, iniziata all'insegna del post punk per virare subito verso una vena decadente e nichilista, nelle medesime corde dei Joy Division, vagamente definibile come darkwave, lato oscuro della new wave britannica (etichetta comunque rigettata dal gruppo), ed infine verso dischi più solari e accessibili.
Robert Smith non voleva che i Cure finissero relegati nella musica mainstream da classifica e si rifugiò negli allucinogeni per combattere la propria depressione (raggiungere la soglia dei 30 anni lo sconvolse) e per far emergere appieno una vena gotica e romantica che rischiava di assopirsi o di finire schiacciata da esigenze di cassetta. Scrisse da solo un gran numero di brani struggenti che di fatto costituivano un lavoro solista: gli altri membri della band li gradirono e ci lavorarono sopra fino al compimento dell'opera. La Fiction Records temeva che un lavoro che abbandonava la strada commerciale degli ultimi dischi potesse rivelarsi un insuccesso, ma Smith proseguì per la sua strada, per dare agli appassionati ma anche al resto del pubblico ciò che lui riteneva di dover esprimere; e vinse la propria sfida, portando alla nascita di un LP capace di raggiungere la vetta delle classifiche nonostante fosse in larga misura l'antitesi della musica commerciale.
Lavoro sincero, dunque, sfumato, estremamente compatto dal punto di vista stilistico, tanto da poter persino apparire monotono all'ascoltatore disattento o incompetente. Eppure un brano come Lovesong, hit pop struggente ma ottimistica, oggetto di infinite cover nei decenni successivi (indimenticabile quella intensissima di Tori Amos al piano) sta lì a spezzare l'aura di disco drammatico, malinconico, romantico sia nel senso comune del termine sia in quello storico-letterario legato al sentimento e al forte sentire quasi ottocentesco. Anche l'altra hit, forse il brano più celebre dei Cure, Lullaby, che del Romanticismo coglie il filone gotico-orrorifico, è un episodio che interrompe per un momento la continuità di quello che, se non è un concept album, è comunque un lungo discorso scandito in una decina di pezzi distinti eppure fra loro straordinariamente coesi, senza cali, senza filler o momenti di stanca.
Summa dell'arte dei Cure, viaggio formativo/iniziatico per gli adolescenti dall'indole introspettiva di più di una generazione, Disintegration è un disco liquido, un disco di pioggia e dolcezza, dove malinconia e sogno vanno a braccetto senza contraddirsi, viaggiando sull'onda dei sintetizzatori e delle tastiere, ma anche del basso a sei corde di Smith.
Dall'apertura, affidata a Plainsong e alla sua suggestiva intro, fino a Untitled è una lunga, lenta cavalcata in un lirismo che si fa epico, nell'intimità dei sentimenti e delle angosce che da private si fanno universali - che è poi ciò che la vera arte deve fare. Smith qui non cita la grande letteratura come in altri dischi, poiché è lui stesso a farsi Autore a pieno titolo, degno di essere citato dagli altri. Un'elegia che celebra il dissidio insanabile tra senso angoscioso del tempo e aspirazione all'eternità, nella consapevolezza che solo l'amore è bellezza incorruttibile. Sono temi che, supportati da tanta bellezza sonora, colpiscono un adolescente, ma lasciano il segno anche nell'animo del critico più cresciuto.
Il pathos di Closedown, Prayers for rain, la lenta discesa nelle acque profonde di The same deep water as you, che sfuma in una pioggia battente, la rapida fuga della title track Disintegration, tutto concorre a costruire una cattedrale gotica sul cui altare maggiore si celebra la grandezza e la miseria del cuore.

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