lunedì 18 gennaio 2016

King Crimson - In the court of the Crimson King, 1969

Qualcuno ha detto che se il pop racconta che va tutto bene e ha la funzione di puro divertissement, di diversione rispetto ai problemi, cioè ci invita a guardare da un'altra parte e a rilassarci, il rock fa l'esatto opposto, punta il dito contro le innumerevoli storture della realtà contemporanea, svolgendo un ruolo non disprezzabile nel nutrire la nostra mente sempre più affamata di verità e bellezza - che sono poi la medesima cosa.
Naturalmente non è solo il rock a farlo: anche la buona letteratura e il buon
cinema. Coi tempi che corrono il rock è ormai a tutti gli effetti assurto a cultura "alta", è un genere dato per morto, ultimo fortino imprendibile di quella buona musica che oggi è riservata a una nicchia di ascoltatori, prevalentemente ultratrentenni o ultraquarantenni; fa compagnia alla classica e al jazz, altri illustri cadaveri vittime dell'accelerazione mediatica del Nulla contemporaneo.

All'interno della un tempo vasta famiglia del rock, tra la fine degli anni Sessanta e la metà del decennio successivo, è esistito un filone fecondo di risultati artistici interessanti, il progressive rock, il rock inglese che tentava di progredire, di trascendere le proprie radici blues americane per spingersi in nuovi territori ancora non battuti, territori di contaminazione. Il rock che incontra il jazz, il rock che incontra la musica classica e persino le arie rinascimentali: alla classica ruba la scansione degli album non più in canzoni ma in suite lunghe quanto una facciata (si parla di dischi in vinile...), spesso a loro volta suddivise in movimenti della durata di svariati minuti; al jazz chiede in prestito la forma aperta ai limiti dell'improvvisazione e un arsenale di strumenti inediti. Tutto questo era possibile in un tempo in cui il mercato musicale lasciava ancora ampio spazio alla creatività, alla capacità di suonare materialmente strumenti musicali, anche d'avanguardia come il mellotron; prima della "plastica" del mercato musicale successivo, fieramente consumistico, prima che il rap e l'hip-hop ingoiassero ogni altro genere musicale, prima delle boy band, prima di MTV che trasmette videoclip di sederi che ballano poco vestiti e gangsta neri ingioiellati e impellicciati, prima dei talent show, prima che i cosiddetti artisti fossero scelti nei consigli di amministrazione delle case discografiche, solitamente ragazzotti selezionati per la loro avvenenza, talvolta una buona voce ma nessun'altra capacità.
Un'era geologica fa, insomma; quando regnava la Musica; quando tutti vendevano dischi, anche se erano brutti, con i capelli lunghi e barbe da eremiti; quando le soglie di attenzione del pubblico erano più lunghe della durata di uno spot televisivo usa e getta e un disco concepito come concept album (come, appunto, avveniva nel progressive rock), con un'idea portante dietro, un filo conduttore narrativo che univa i brani o le suites, poteva essere colto, compreso, apprezzato.

Il volto angosciato che campeggia nell'immagine di copertina è una delle icone più celebri della storia della musica ed esprime meglio delle parole l'idea che le cose vanno male e che rischiano di andare ancora peggio nell'immediato futuro: è il volto dell'uomo schizoide del 21° secolo che nel 1969 era un futuro già presente, tra sbarco sulla Luna, guerra del Vietnam e fine del sogno psichedelico di cambiare il mondo con fiori e amore. Un moderno urlo di Munch che denuncia che il mondo è nelle mani dei folli, per citare un verso di Epitaph. Ma al tempo stesso quest'immagine è anche l'icona della nascita di un genere musicale: certo, il progressive rock in qualche modo era già nato, esistevano alcuni precedenti fin dal 1967, come le prime ingenue aperture alla classica dei Moody Blues e dei Procol Harum, ma è solo questo disco a costituire l'anno zero del genere. Il Re Cremisi rappresenta uno dei più abbaglianti dischi d'esordio della storia della musica, un disco spiazzante, per una volta davvero "nuovo", tanto lontano dai Rolling Stones o dai Led Zeppelin da lasciar intendere subito alla stampa specializzata e al pubblico più attento che nei microsolchi di quel vinile prendeva il via un lungo inedito viaggio onirico.
Dietro il progetto la mente malata e lucidissima di Robert Fripp, demiurgo del gruppo in tutte le sue incarnazioni nei quarant'anni successivi; uno che aveva imparato a suonare da autodidatta e sul cui plettro prenderanno forma suoni mai sentiti.
Il rock, ancora giovane, è già esploso, detonato volontariamente in mille pezzi per potersi liberare le mani e giocare su tutti i fronti, inseguendo una musica totale, che trascende i generi


Apre il disco un brano che vale da solo l'intero catalogo di molti artisti, 21st century schizoid man, dove la musica si aggrega da una nube stellare di suoni space solo dopo trenta secondi, con due strofe urlate e distorte, in cui si concentra in una serie di immagini crude il ritratto apocalittico di un futuro estrapolato dal presente: 

Cat's foot iron claw
Neuro-surgeons scream for more
At paranoia's poison door.
Twenty first century schizoid man.

Blood rack barbed wire
Politicians' funeral pyre
Innocents raped with napalm fire
Twenty first century schizoid man. 

A quel punto il Re Cremisi getta la maschera svelando la natura profonda di una musica spiazzante, lanciandosi in un'indiavolata jam session di chitarra elettrica, distorsione, batteria furiosa e soprattutto sassofono convulso e tiratissimo. Un'esplosione sonora maestosa, frenetica, che travolge in circa cinque minuti di forma aperta la musica degli anni Sessanta. Poi una terza strofa allucinata e visionaria nel mostrare quello che siamo diventati, cioè schiavi di guerre, violenza, consumismo sfrenato.

Death seed blind man's greed
Poets' starving children bleed
Nothing he's got he really needs
Twenty first century schizoid man.

Il brano si chiude in un crescendo cacofonico che esplode nelle orecchie dell'ascoltatore.


Il passaggio alla dolcezza melodica e bucolica di I talk to the wind è stridente ed è un sollievo per l'animo dei moderni schizoidi, cullati dall'oboe, dal vibrafono e dal flauto; ma, come recita il testo, confidare le nostre angosce al vento è inutile perché il vento non può ascoltare.
Segue l'epica quasi sinfonica di Epitaph, malinconica marcia verso l'ignoto che lascia poche speranze al genere umano ("confusion will be my epitaph").
Tutto si dissolve in Moonchild, che, dopo tre minuti di piacevole "canzone" melodica, si disarticola, si scioglie trasformandosi in uno dei pezzi più sperimentali di sempre, autentico brano di musica contemporanea in senso lato, dissonante free form al limite del rumoristico a tratti addirittura capace di spingersi - nella sua rarefazione sonora - fino alle soglie del silenzio puro; controverso capolavoro che introduce quell'autoindulgenza intellettualoide che darà frutti non sempre sani nel prosieguo del progressive britannico.
Infine eccoci ammessi alla corte del re, in un altro brano epico dallo stesso incedere maestoso di EpitaphThe Court of the Crimson King, ultimo atto di un disco irripetibile. Ma non siamo soli: con noi ci sono regine nere, streghe del fuoco, giardinieri, buffoni, pifferai, cavalieri che giostrano e tanti altri personaggi di un immaginario rinascimentale di figure allegoriche dietro le quali si cela ben altro.
In quaranta minuti le linee di tutto il progressive rock successivo (concept album, struttura classica, fughe free jazz, immaginario rinascimentale/fantasy, copertine simboliche) sono tracciate, anche se nessuno riuscirà più a racchiudere in uno scrigno così tante suggestioni nuove e indimenticabili. Tranne gli stessi King Crimson.



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