giovedì 21 gennaio 2016

Simple Minds - New Gold Dream, 1982

Forse nella storia di ogni rock band esiste un momento magico, una strana congiunzione astrale che porta le menti dei suoi componenti - anche quando sono menti semplici - a trovare la giusta alchimia per comporre un capolavoro destinato a restare immortale negli anni. A dire il vero ad alcune band questo non è mai riuscito, ma ai Simple Minds sicuramente sì, almeno una volta e fragorosamente, consentendo loro di lasciare il segno nel cuore di milioni di
fan, alcuni dei quali si trasformarono a loro volta in musicisti. Uno dei dischi seminali da portare sulla proverbiale isola deserta.
Prima che il loro anthem rock da stadio dominasse gli anni '80 con motivi catchy come l'infame Don't you forget about me, hit dal successo immeritato, scritta da altri per altri, dunque estranea al gruppo e rea di averne oscurato la precedente pregevole carriera inaridendone la creatività all'inseguimento di altri facili profitti commerciali, ebbene prima di tutto ciò la compagine di Glasgow era stata una band dedita a una new wave d'avanguardia e addirittura a forme di art rock di notevole spessore con un sound debitore di quello dei Kraftwerk e in generale del krautrock, come nei lavori tra il 1979 e il 1980.
Dischi come Real to real cacophony, Empires and dance, Sons and fascination e Sister feelings call contenevano pezzi tutt'altro che banali per liriche e struttura compositiva. I Simple Minds sperimentavano sotto la spinta della creatività più ispirata. La loro musa, in quegli anni, non si avventurava in territori troppo lontani da quelli esplorati, con grandi risultati artistici, dai coevi Japan di David Sylvian.
Il disco in cui la maturità artistica si sposò con la massima ispirazione, la potenza espressiva, le fortunate collaborazioni (nientemeno che Herbie Hancock) e un'atmosfera irripetibile è senza dubbio New Gold Dream, nel quale venne a crearsi un insperato e fragile equilibrio tra synth pop, new wave artisticamente pregevole e spendibilità commerciale.
Jim Kerr guida i Minds in un viaggio fatto di suggestioni fortissime, inni pop rock trascinanti e immortali, ininterrottamente riproposti nei trent'anni successivi nelle esibizioni live, e momenti intensi e persino oscuri. Il suo cantato è qui possente, a tratti ipnotico come la musica stessa e all'occorrenza haunting, ai limiti dello spettrale, con un paradossale contrasto con le immagini di oro, sole e luce scintillante che alcuni brani e l'estetica del disco (e dei video) evocano.
Il sogno dorato degli anni '80 prende forma in modo abbagliante con un sound che nessuna band nella storia non solo della new wave ma del rock in generale ha mai più riproposto in quella forma: limpido, tirato a lucido, quasi sfolgorante; ricco, lussureggiante, eppure controllato grazie alla produzione di Peter Walsh. Derek Forbes, superba mente creativa che con la sua dipartita segnerà l'inizio della fase commerciale del gruppo, dà qui il suo meglio sia in fase di composizione sia con il suo strumento d'elezione, il basso, nel cui uso sembra voler rivaleggiare con il grande e compianto Mick Karn dei già citati Japan. Le linee di basso di New Gold Dream sono memorabili e sostengono interi brani.

Oltre al basso di Forbes, vanno citate la chitarra di Burchill, mai invadente, la batteria del neo acquisto Mel Gaynor, possente e capace di dare corpo all'impasto sonoro, e le tastiere di Mick MacNeil, che costituiscono un'altra quota essenziale del sound di quel periodo; un sound che non seguiva pedissequamente le mode del momento e che, dunque, non risulta invecchiato male come quello di altre band del tempo.
È un rock che non ha paura di spingere alcuni suoi groove ai limiti della dance, come l'impianto ritmico suggerisce, ma che si sostanzia di melodie pop tutt'altro che "plasticose" e di liriche non scontate: Kerr scriveva in modo estremamente ermetico e suggestivo puntando sul suono delle parole e sulle immagini che evocavano.
Someone somewhere in summertime è un inno ancora fresco e dal sapore magnetico dopo oltre tre decenni, un classico intramontabile, così come la title track New Gold Dream (81-82-83-84), manifesto ad un tempo ideologico ed estetico di un'epoca. Colours fly and Catherine wheel sembra, come suggerisce il titolo, "ruotare" su se stessa, con una sorta di circolarità del suono. Promised you a miracle e Glittering prize, due singoli da hit, lasciano il segno anche presso il pubblico meno incline alle sperimentazioni degli esordi, ma conservano una struttura e un fascino che non consente di classificarli come brani commerciali.
Big Sleep, poi, onirica, ipnotica, dove tastiere e basso creano l'illusione di un sonno dorato in cui trovano posto note e parole, scandite da un ritmo inesorabile, lento, non spinto da alcuna urgenza danzereccia e tuttavia trascinante.
Persino la strumentale Somebody up there likes you è solo all'apparenza un filler atto a fare da ponte tra la prima e la seconda facciata del disco: condivide col resto dei pezzi lo stesso romanticismo sognante e testimonia un'epoca in un cui i Simple Minds scrivevano sistematicamente degli instrumentals memorabili come la celeberrima Theme for great cities.
Hunter and the hunted resta ad oggi uno dei più ispirati e suggestivi brani di tutta la new wave, introdotto dalle tastiere di Herbie Hancock che decise di collaborare con la band, impreziosendo il brano con un'esecuzione magistrale. Nelle sue mani, l'intro del pezzo spinge l'ascoltatore in un'atmosfera sospesa e davvero "magica" - non c'è altro aggettivo che calzi -, specularmente ripresa nella parte finale, talmente bella da restare forse un unicum irripetibile, emblema di ciò che il disco è nel suo insieme, come testimonia il fatto che sia rimasto privo di veri epigoni negli anni seguenti o nella produzione attuale. Brividi.


Altrettanto complessa e ipnotica anche la conclusiva King is white and in the crowd, con un altro dei testi ermetici di Jim Kerr, ispirato all'assassinio di Sadat nel 1981, che la sua voce rende inquietante, in netto contrasto con le atmosfere sognanti del resto dell'album; un brano sorretto da una struttura compositiva intricata, oscura, che torna a flirtare col krautrock dei Kraftwerk ma con meno elettronica e, se possibile, in chiave più dark.
L'incantesimo è riuscito, il pubblico resta stregato dal disco nell'autunno del 1982 e ancora oggi considera questo uno dei lavori fondamentali di un decennio sovente accusato di superficialità. Difficile non rimpiangerne la grandezza quando, nella seconda metà del decennio, il sogno dorato si infranse e la stessa splendente creatività dei Minds si eclissò.


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