domenica 16 ottobre 2016

U2 - The Joshua Tree, 1987

Quando gli U2 erano gli U2. Un disco leggendario, uno di quelli che definiscono una carriera; e non solo in virtù di un trittico di apertura che rimane negli annali del pop rock ma anche di una compattezza stilistica splendida, di un sound corposo, epico eppure introspettivo - con nientemeno che Brian Eno e Daniel Lanois come numi tutelari proprio come nel precedente The Unforgettable Fire - e di una produzione impeccabile grazie al missaggio di Steve Lillywhite. The Joshua
Tree, prima ancora di essere un tributo all'America come tappa imprescindibile di un percorso a ritroso nel tempo e nello spazio alla ricerca delle radici del rock (che proseguirà e si approfondirà nel successivo e un po' autocelebrativo Rattle and Hum), è il biglietto staccato dai quattro dublinesi per intraprendere un viaggio in direzione opposta, verso il futuro e il successo; un biglietto per saltare definitivamente sul treno della popolarità: 28 milioni di copie vendute (di cui 10 negli States), vette delle charts inglesi e americane raggiunte e mantenute a lungo e persino copertina di Time come i Beatles, consacrazione simbolica per una band già definita dalla rivista Rolling Stone come la migliore degli anni '80.
Naturalmente esiste qualcuno che ancora oggi mette in dubbio un tale primato - per quanto i numeri parlino chiaro e raccontino che gli U2 sono stati e sono da 30 anni almeno (ne ricorrono 40 proprio ora dalla loro fondazione) "la" band di risonanza mondiale per definizione, rimanendo tale ben oltre i limitati confini degli anni '80. Nel decennio della musica "di plastica" - sentenza bugiarda, ma non è questa la sede per discuterne - il quartetto capitanato dall'irrequieto Paul Hewson - in arte Bono - ha intrapreso un percorso molto lontano dai toni spensierati e disimpegnati di molta produzione del tempo, andando sempre più ad approfondire l'impegno sociale e politico non solo dei testi delle canzoni ma delle scelte di vita dei membri della band - del frontman in particolare.
Già nel 1985, dopo la consacrazione in mondovisione sul palco del Live Aid, Bono e consorte erano partiti per l'Etiopia, "dove le strade non hanno nome", trovando ispirazione per il testo di Where the Streets Have No Name. Altri viaggi dei coniugi Hewson in El Salvador e Nicaragua (peraltro piuttosto rischiosi per la loro incolumità) offrirono invece l'occasione - in Bullet the blue sky, altra perla del disco - per attaccare le politiche imperialiste reaganiane mirate a destabilizzare quei Paesi. E poi ancora il drammatico problema dei minatori inglesi negli anni della Thatcher che anima una canzone come Red Hill Mining Town dalle tematiche "proletarie" in senso stretto, spingendosi nei territori creativi cari a Bruce Springsteen. Tutto questo passando per il tema della droga in Running to stand still (ma già l'argomento aveva infiammato le note di Wire nel precedente album), per finire con il tema dei desaparecidos della dittatura argentina in Mothers of the Disappeared, dedicata alle Madri di Plaza de Mayo. Difficile trovare tanto impegno sociale e politico su una gamma così ampia di tematiche in un disco "pop". Bono iniziò ad assomigliare persino al profeta Bob Dylan, col quale non a caso strinse amicizia.
La carrellata dei brani più politicamente impegnati fa passare in secondo piano canzoni come il gospel I Still Haven't Found What I'm Looking For, con una tematica come la fragilità della fede, che da sola è già più di quanto si può reperire tra le pieghe di interi dischi di pop e pop rock; oppure l'oscuro viaggio nel delirio dell'istinto omicida da parte di un fanatico religioso in Exit, capolavoro tesissimo e drammatico sottovalutato anche da molti estimatori della band.









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