venerdì 28 ottobre 2016

King Crimson - In the wake of Poseidon, 1970

Chi intese sminuire il valore di questo disco accusandolo di essere un assemblaggio degli scarti del precedente, seminale In the court of the Crimson King, risalente a sei mesi prima, in realtà finì per rivolgergli un involontario complimento; sempre che quest'opinabile accusa fosse fondata. Un ideale lato-B dell'album d'esordio? Ad avercene, di questi tempi, di dischi del genere!
Pictures of a city è la brutta copia di 21st century schizoid man? Bene! Cadence and cascade ripete simmetricamente il rallen-
tamento bucolico dopo la frenesia del primo brano come aveva fatto I talk to the wind, replicandone la serena ariosità? Benissimo! Il terzo brano, la titletrack In the wake of Poseidon ricalca da vicino la malinconia apocalittica di Epitaph? Non chiediamo di meglio. Non tutti i dischi possono essere rivoluzioni totali che inaugurano nuove stagioni della storia della musica. E che dire di chi critica Cat food come "lennoniana", come se evocare la cifra stilistica di John Lennon - soprattutto per via del cantato di Greg Lake - fosse un insulto?

Questo tormentato secondo lavoro nasceva nel segno del primo terremoto nella line-up, evento destinato a diventare una costante nel futuro della band, quasi mai uguale a se stessa negli anni, tranne che per il "cervello", la cerebrale, scrupolosa testa pensante di Robert Fripp. Ian McDonald e Michael Giles avevano lasciato alla fine del 1969 mentre Greg Lake, che aveva prestato la sua voce intensa e coinvolgente al primo album, all'inizio del 1970 si fece tentare da Keith Emerson e dal suo progetto, gli Emerson, Lake & Palmer, future bandiere del progressive magniloquente e virtuosistico oltre che scalatori di classifiche. Per la verità Lake cantò ancora in quasi tutti i brani di In the wake of Poseidon (tranne Cadence and Cascade, dove venne sostituito da Gordon Haskell), ma prima del definitivo addio si fece pagare "in natura" portandosi dietro preziose apparecchiature.


Fripp si ritrovò così da solo (non contando il paroliere Peter Sinfield), unico musicista sopravvissuto, Re Cremisi solitario sul suo trono, pieno di idee su dove il rock dovesse spingersi ma senza più compagni di viaggio. Ricostituì la band ingaggiando Mel Collins (sassofono e flauto) e il pianista jazz Keith Tippett come session man esterno; ma di fatto contribuirono alle registrazioni del nuovo lavoro anche due vecchi compagni d'armi, i fratelli Giles. Tutti apparivano accomunati dalla volontà di non restare stabilmente nel gruppo, intimoriti forse dai frequenti conflitti con la spigolosa e tirannica personalità del genio Fripp.
I dischi dalla genesi tormentata, che nascono da tensioni creative e disaccordi, racchiudono spesso qualcosa di affascinante nella loro natura sghemba, forse proprio in virtù delle loro contraddizioni; ed è appunto il caso di questo In the wake of Poseidon, che pure appare curatissimo e d'impatto, con una produzione tecnicamente anche superiore al disco d'esordio e arrangiamenti jazz più marcati.

Solo il caos creativo può generare - nietzscheanamente - "una stella danzante" come questa, che passa dall'a cappella iniziale di Peace - A Beginning (ripreso in chiave strumentale al centro del disco) al fusion jazz-rock di Pictures of a city (intitolata A Man, A City nelle esibizioni live del 1969), dal blues rock ruvido di Cat Food (satira sul consumismo) che si stempera nel free-jazz, fino al vortice sonoro impazzito di The Devil's Triangle, due brani - questi ultimi - che bastano a smentire l'impressione iniziale di sterile riciclo data dal lato A del disco a detta di alcuni. L'"effetto specchio" delle innegabili incursioni in territori già noti e collaudati della prima facciata termina decisamente con l'inizio di questa seconda parte in cui trova posto la sperimentazione artistica.

Il culmine è dato dalla pseudo-suite di The Devil's Triangle, un lungo strumentale già compiutamente "progressive" (o forse art rock?). Il titolo sembra riferirsi al Triangolo delle Bermude (dato il tema acquatico del disco), alludendo al contempo alla tripartizione della suite; ma soprattutto all'impiego del tritono, intervallo armonico dissonante detto "diabolus in musica" durante il Medioevo e di conseguenza bandito (si veda il suo uso da parte dei Tuxedomoon in Half Mute).
La suite si apre con un primo movimento di sette minuti, Merday Morn, che è l'evoluzione in studio dell'arrangiamento rock di Mars: Bringer of War dalla pièce sinfonica The Planets di Gustav Holst che i Crimson avevano eseguito dal vivo nel 1969 e che per motivi di diritti d'autore non potevano riproporre nei solchi del vinile. Poi è la volta dell'interludio Hand of Sceiron (Scirone figlio di Poseidone), con il rumore del vento sulle acque; si passa infine a Garden of Worm, schizzata giostra sonora per mellotron che nelle spire del suo turbine di suoni pare ingurgitare l'ascoltatore come un gorgo marino: una cacofonia di suoni, ritmi, marce, carillon, campionamenti che include anche l'uso zappiano della xenocronia, la tecnica da sala di mixaggio sperimentata da Frank Zappa consistente nel trapianto di un assolo o di una porzione di un brano in un altro del tutto diverso, con effetto straniante (in questo caso un campionamento di In the court of the Crimson King viene innestato nel flusso cacofonico finale della suite).
Questa ardita composizione, con il suo incedere angosciante, a tratti persino terrificante in alcuni passaggi quasi "orrorifici" (che sembra evocare la potenza delle acque "nella scia di Poseidone"), fa da perfetto contrasto alla dolcezza del tema ricorrente di Peace - An End, che torna a chiudere il disco esponendo il tema una terza volta nel segno della combinazione delle due esposizioni precedenti (voce più chitarra acustica).

Si potrebbe dire molto - poi - dei testi di Peter Sinfield, ancora una volta graffianti nel parlare di alienazione in chiave allegorica; ma anche ricchi di allusioni al repertorio di credenze occultistiche e new age che caratterizzano il poeta, facendo ricorso questa volta ai dodici archetipi junghiani (nella titletrack a centro disco) che compaiono non a caso nella cover decisamente naif dell'album a firma dell'hippy Tammo De Jongh (The 12 Archetypes or The 12 Faces Of Humankind, 1967) e per mezzo dei quali si lanciano strali contro la società, la religione, la civiltà tutta dell'Occidente indicando un utopistico orizzonte di palingenesi spirituale dell'umanità (del resto erano gli anni di Hair e Aquarius).

C'è dunque tutto quello che serve per confezionare una gemma di rock d'arte che - letteralmente - fa "progredire" passo dopo passo la percezione di cos'è il genere superando ancor più nettamente del disco precedente il passato e confermando la vocazione di Robert Fripp e della sua "corte" (da chiunque essa sia di volta in volta costituita) a dare vita a musica complessa che quanto più appare, a prima vista, figlia dell'improvvisazione, tanto più si scopre essere frutto di uno studio attento e meticoloso.


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