mercoledì 2 novembre 2016

King Crimson - Islands, 1971

Più che una band i Crimson sono stati una casa discografica, un'etichetta, una bottega di sperimentazione, "un modo di fare le cose" come ebbe a dire Robert Fripp.
Se Lizard (1970) aveva spazzato ogni certezza dopo il primo dittico di album, questo Islands a fine 1971 rimescolò ulteriormente le carte, lasciando intendere che nulla nella storia del marchio KC sarebbe stato prevedibile e che la bandiera del progredire sempre, senza compromessi sarebbe stata seguita fedelmente ignoran-
do i gusti musicali del tempo presente (e futuro!) e ogni preoccupazione riguardo a classifiche e vendite.

Dopo tre album all'insegna dell'instabilità nella formazione, ancora una volta si profilava una rivoluzione. Dei musicisti che componevano l'ultima line-up rimaneva accanto a Fripp solo il sassofonista e flautista Mel Collins (a parte il paroliere Sinfield) e occorreva assemblare un gruppo in grado di tornare a esibirsi dal vivo, cosa che non accadeva dal 1969: In the wake of Poseidon e Lizard giacevano pazientemente nei solchi dei vinili senza aver ancora trovato sbocco su un palco.
Salirono così a bordo il batterista Ian Wallace e il cantante Raymond "Boz" Burrell, quarta voce del gruppo ad apparire nelle incisioni (gli ancora sconosciuti Elton John e Bryan Ferry erano stati presi in considerazione e scartati tra il '70 e il '71). In assenza di un bassista, Burrell dovette adattarsi anche a imparare a suonare lo strumento sotto le direttive di Fripp, che glielo insegnò in poche settimane (lui che era stato un autodidatta!).
Oltre ai nuovi membri vennero riconfermati i soliti session-men esterni provenienti dal mondo del jazz britannico - Keith Tippett su tutti - che già avevano contribuito al precedente album.
Radunata la nuova ciurma, la nave salpò per altre isole sconosciute, ancora più remote e inaccessibili, isole forse stellari, come sembra suggerire la fotografia di copertina, che ritrae un'immagine della nebulosa Trifida nella costellazione del Sagittario catturata da un telescopio.

Islands sfida le aspettative e compie un ulteriore passo avanti nella direzione della ricercatezza sonora e del superamento definitivo dei confini del rock le cui labili tracce, in quest'opera, si faticano a scovare; è possibile - anzi - negare del tutto l'ascrizione di questo disco al genere rock. Se lo spazio riservato al jazz era gradualmente aumentato di disco in disco, ora ci si spinge decisamente verso la musica contemporanea e addirittura nei territori della classica.

Già il primo brano, Formentera Lady, sgombra il campo da equivoci trasportandoci su di un'isola sonora romantica e sperduta, fatta di musica contemporanea sperimentale interamente acustica, tanto ardita da ospitare persino una soprano (la reale durata del brano è di 10:18, a dispetto della divisione dei brani che appare.

Poi è la volta dello strumentale Sailor's Tale, capolavoro impressionistico in cui le onde del mellotron suggeriscono l'idea della tempesta, per poi accogliere l'incredibile assolo chitarristico di Fripp che evoca il terrore dei flutti, dipingendolo con le pennellate del suo plettro. L'effetto potrebbe essere vagamente associato a quello di The Devil's Triangle, strumentale altrettanto "pittorico", specie nel finale sospeso e angoscioso.

Boz Burrell, Ian Wallace e Mel Collins
La prima facciata del disco si chiude con la tristissima The Letters, che dopo una intro cantata raccontando di gelosia con parole crude, affilate come rasoi, si lancia nel free-jazz avanguardistico, su toni melodrammatici.

Spiazzante, a quel punto, in apertura di lato B, è Ladies of the road, il cui blues sporco si discosta profondamente dal tono e dal sound del resto dell'album; forse meglio avrebbe trovato posto in Lizard tra Indoor games e Happy family per uniformità di registro stilistico e liriche (riferimenti beatlesiani: richiama Come together). Si tratta di una benevola e maliziosa satira sulle groupies.

All of you know that the girls of the road
Are like apples you stole in your youth.

Veniamo riportati bruscamente all'atmosfera propria di Islands con la successiva Prelude: Song of the gulls e il contrasto con il brano precedente non potrebbe essere più stridente: si tratta della più scioccante composizione strumentale del genio frippiano, un brano di musica classica; e non il solito flirt con la musica sinfonica dei grandi autori ottocenteschi cui certo prog rock ci abituerà, rileggendola in chiave rock; qui abbiamo a che fare con una vera composizione classica originale, musica barocca con quartetto d'archi e oboe che fa - come il titolo suggerisce - da preludio al brano conclusivo.

Il disco si chiude come si era aperto, con il romanticismo e con lo splendore melodico della titletrack Islands, voce, piano, mellotron e assolo di corno di Collins sul finale. Composizione commoventissima, struggente come pochi altri brani posta a suggello di un viaggio ricco di emozioni che si faticano a elaborare al primo ascolto.


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